Dissesto idrogeologico: la fragilità del territorio italiano

L’Italia è un paese fragile. Le aree in cui ricadono pesanti vincoli geomorfologici ammontano al 9,8% del territorio nazionale e toccano ben l’89% dei comuni. Se si pensa che su questi territori sono state costruite 6250 scuole e 550 ospedali, non si pensa sia necessario aumentare la sensibilità e conoscenza su questa tematica?
Il termine dissesto idrogeologico indica i fenomeni e i danni reali o potenziali causati principalmente dagli eventi atmosferici estremi come – tra gli esempi più comuni – frane, alluvioni e valanghe.
Questi sono processi geomorfologici che, influenzati dalla conformazione del territorio ma soprattutto dalle modifiche antropiche degli aspetti ambientali, alterano le morfologie e producono una degradazione del suolo con evidenti ripercussioni sulla stabilità del terreno. Questi fenomeni producono erosione del suolo e sottosuolo, frane, smottamenti, inondazioni urbane, colamenti e subsidenze.

Il dissesto è collegato sia a fattori naturali, sia a fattori antropici. L’instabilità delle formazioni pedologiche è infatti da sempre presente in natura e fa parte dell’evoluzione della superficie terrestre. Per quanto riguarda gli aspetti antropici, questi, di anno in anno, stanno causando pressioni sempre maggiori a livello diretto e indiretto. Da una parte si ha di fatto un’insufficiente gestione del territorio e dall’altra vi è il cambiamento climatico, causa principale dell’intensificazione dei rovesci meteorologici.

La scarsa cura del territorio costituisce il primo punto da cui partire per cercare di temprare il problema. Purtroppo viviamo in un territorio che è urbanizzato per quasi il 60%. Stese di cemento, edifici e capannoni rendono il nostro già fragile territorio più vulnerabile. Ma questo cosa comporta? Il problema principale del consumo di suolo è l’impermeabilizzazione. Questa infatti annulla, durante i periodi piovosi, la naturale capacità del terreno di drenare. Inoltre, in ambito urbano, molti invasi d’acqua sono stati negli anni intubati non permettendo all’acqua di avere uno scolo.
In alcune città europee si sta procedendo alla riconversione delle aree impermeabilizzate non più funzionali, facendo riemergere il terreno sottostante a semplice prato o attuando politiche di rimboschimento.

Ulteriori problemi derivano anche dall’abusivismo edilizio. Soprattutto dagli anni ’50, il boom economico ha comportato un aumento smisurato delle aree cementificate anche in aree vulnerabili. Questo senza aver richiesto precedentemente gli adeguati permessi e senza aver fatto eseguire gli opportuni studi geologici e idrogeologici. Ad oggi si pensa che queste illegalità non siano più presenti ma nel 2021 sul totale delle nuove costruzioni italiane, il 13,1% è abusivo.
Infine, l’abbandono dei campi agricoli e dei terreni montani, il disboscamento e la mancanza di manutenzione delle opere di difesa e degli invasi alterano i flussi di torrenti e fiumi che, nei momenti fatali di emergenza, soccombono all’incuria.

Ovviamente la prevenzione è la parola che riecheggia in ogni possibile soluzione. È necessario infatti comprendere bene queste tematiche e progettare interventi ed opere con visioni a lungo termine, investendo sulla ricerca e il monitoraggio idrogeologico. Gli studi devono diventare parte integrante della pianificazione urbanistica incorporando strategie condivise e multidisciplinari.
Non è infatti più accettabile pensare di poter risolvere i problemi idrogeologici innalzando ancora di più le sponde fluviali con il cemento, modificando il naturale percorso dei torrenti o eliminando le zone naturali di sfogo come le aree golenali.
È necessario invece limitare sostanzialmente il consumo di suolo, promuovendo, se proprio necessarie, pavimentazioni drenanti, mantenere vive le comunità rurali, riforestare e limitare lo sviluppo urbano in zone idraulicamente critiche.

 

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